Santa Caterina da Siena
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Vergine e dottore della Chiesa, patrona d’Italia
Siena, 25 marzo 1347 – Roma, 29 aprile 1380
Lo si dice oggi come una scoperta: “Se è in crisi la giustizia, è in crisi lo Stato“. Ma lo diceva già nel Trecento una ragazza: “Niuno Stato si può conservare nella legge civile in stato di grazia senza la santa giustizia”. Eccola, Caterina da Siena. Ultima dei 25 figli (con una gemella morta quasi subito) del rispettato tintore Jacopo Benincasa e di sua moglie Lapa Piacenti, figlia di un poeta. Caterina non va a scuola, non ha maestri. Accasarla bene e presto, ecco il pensiero dei suoi, che secondo l’uso avviano discorsi di maritaggio quando lei è sui 12 anni. E lei dice di no, sempre, anche davanti alle rappresaglie. E la spunta. Del resto chiede solo una stanzetta che sarà la sua “cella” di terziaria domenicana (o Mantellata, per l’abito bianco e il mantello nero). La stanzetta si fa cenacolo di artisti e di dotti, di religiosi, di processionisti, tutti più istruiti di lei. E tutti amabilmente pilotati da lei. Li chiameranno “Caterinati”. Lei impara faticosamente a leggere, e più tardi anche a scrivere, ma la maggior parte dei suoi messaggi è dettata. Con essi lei parla a papi e re, a cuoiai e generali, a donne di casa e a regine. Anche ai “prigioni di Siena”, cioè ai detenuti, che da lei non sentono una parola di biasimo per il male commesso. No, Caterina è quella della gioia e della fiducia: accosta le loro sofferenze a quelle di Gesù innocente e li vuole come lui: “Vedete come è dolcemente armato questo cavaliero!”. Nel vitalissimo e drammatico Trecento, tra guerra e peste, l’Italia e Siena possono contare su Caterina, come ci contano i colpiti da tutte le sventure, e i condannati a morte: ad esempio, quel perugino, Nicolò di Tuldo, selvaggiamente disperato, che lei trasforma prima del supplizio: “Egli giunse come uno agnello mansueto, e vedendomi, cominciò a ridere; e volse ch’io gli facessi il segno della croce”. Va ad Avignone, ambasciatrice dei fiorentini per una non riuscita missione di pace presso papa Gregorio XI. Ma dà al Pontefice la spinta per il ritorno a Roma, nel 1377. Parla chiaro ai vertici della Chiesa. A Pietro, cardinale di Ostia, scrive: “Vi dissi che desideravo vedervi uomo virile e non timoroso (…) e fate vedere al Santo Padre più la perdizione dell’anime che quella delle città; perocché Dio chiede l’anime più che le città”. C’è pure chi la cerca per ammazzarla, a Firenze, trovandola con un gruppo di amici. E lei precipitosamente si presenta: “Caterina sono io! Uccidi me, e lascia in pace loro!”. Porge il collo, e quello va via sconfitto. Deve poi recarsi a Roma, chiamata da papa Urbano VI dopo la ribellione di una parte dei cardinali che dà inizio allo scisma di Occidente. Ma qui si ammala e muore, a soli 33 anni. Sarà canonizzata nel 1461 dal papa senese Pio II. Nel 1939 Pio XII la dichiarerà patrona d’Italia con Francesco d’Assisi. E nel 1970 avrà da Paolo VI il titolo di dottore della Chiesa. La festa delle stigmate di S. Caterina è, per il solo ordine domenicano, il 1° aprile.
Lo si dice oggi come una scoperta: “Se è in crisi la giustizia, è in crisi lo Stato“. Ma lo diceva già nel Trecento una ragazza: “Niuno Stato si può conservare nella legge civile in stato di grazia senza la santa giustizia”. Eccola, Caterina da Siena. Ultima dei 25 figli (con una gemella morta quasi subito) del rispettato tintore Jacopo Benincasa e di sua moglie Lapa Piacenti, figlia di un poeta. Caterina non va a scuola, non ha maestri. Accasarla bene e presto, ecco il pensiero dei suoi, che secondo l’uso avviano discorsi di maritaggio quando lei è sui 12 anni. E lei dice di no, sempre, anche davanti alle rappresaglie. E la spunta. Del resto chiede solo una stanzetta che sarà la sua “cella” di terziaria domenicana (o Mantellata, per l’abito bianco e il mantello nero). La stanzetta si fa cenacolo di artisti e di dotti, di religiosi, di processionisti, tutti più istruiti di lei. E tutti amabilmente pilotati da lei. Li chiameranno “Caterinati”. Lei impara faticosamente a leggere, e più tardi anche a scrivere, ma la maggior parte dei suoi messaggi è dettata. Con essi lei parla a papi e re, a cuoiai e generali, a donne di casa e a regine. Anche ai “prigioni di Siena”, cioè ai detenuti, che da lei non sentono una parola di biasimo per il male commesso. No, Caterina è quella della gioia e della fiducia: accosta le loro sofferenze a quelle di Gesù innocente e li vuole come lui: “Vedete come è dolcemente armato questo cavaliero!”. Nel vitalissimo e drammatico Trecento, tra guerra e peste, l’Italia e Siena possono contare su Caterina, come ci contano i colpiti da tutte le sventure, e i condannati a morte: ad esempio, quel perugino, Nicolò di Tuldo, selvaggiamente disperato, che lei trasforma prima del supplizio: “Egli giunse come uno agnello mansueto, e vedendomi, cominciò a ridere; e volse ch’io gli facessi il segno della croce”. Va ad Avignone, ambasciatrice dei fiorentini per una non riuscita missione di pace presso papa Gregorio XI. Ma dà al Pontefice la spinta per il ritorno a Roma, nel 1377. Parla chiaro ai vertici della Chiesa. A Pietro, cardinale di Ostia, scrive: “Vi dissi che desideravo vedervi uomo virile e non timoroso (…) e fate vedere al Santo Padre più la perdizione dell’anime che quella delle città; perocché Dio chiede l’anime più che le città”. C’è pure chi la cerca per ammazzarla, a Firenze, trovandola con un gruppo di amici. E lei precipitosamente si presenta: “Caterina sono io! Uccidi me, e lascia in pace loro!”. Porge il collo, e quello va via sconfitto. Deve poi recarsi a Roma, chiamata da papa Urbano VI dopo la ribellione di una parte dei cardinali che dà inizio allo scisma di Occidente. Ma qui si ammala e muore, a soli 33 anni. Sarà canonizzata nel 1461 dal papa senese Pio II. Nel 1939 Pio XII la dichiarerà patrona d’Italia con Francesco d’Assisi. E nel 1970 avrà da Paolo VI il titolo di dottore della Chiesa. La festa delle stigmate di S. Caterina è, per il solo ordine domenicano, il 1° aprile.