«Pillola dei cinque giorni? Come la Ru486»

LA VITA MINACCIATA

«È più simile alla Ru486 che al levonorgestrel, la classica pillola del giorno dopo». Nella definizione sintetica di Mario Eandi, docente di Farmacologia clinica all’Università di Torino, c’è tutta l’ambiguità di chi vuol far credere che la pillola dei cinque giorni dopo (ulipristal acetato, commercializzata con il nome di EllaOne) sia un prodotto contraccettivo, da poter dispensare dietro semplice presentazione di una ricetta medica e senza riferirsi alla legge 194. «Basta pensare – aggiunge – che in alcuni Paesi asiatici lo stesso mifepristone (il principio attivo della Ru486) viene utilizzato a basso dosaggio come pillola dei cinque giorni dopo…».

Il via libera negli Stati Uniti alla vendita della pillola dei cinque giorni dopo, venerdì scorso, ha rinfocolato la polemica sull’effetto contraccettivo o abortivo di questi prodotti. Ci può spiegare il meccanismo d’azione di questi farmaci?

Sia dal punto di vista strutturale, sia da quello del meccanismo d’azione, l’ulipristal acetato (la pillola dei cinque giorni dopo) è un antiprogestinico che si comporta come la pillola abortiva Ru486. Si tratta di un antagonista del recettore del progesterone, l’ormone che presiede all’impianto dell’embrione in utero e al proseguimento della gravidanza: prepara l’endometrio e lo rende adatto all’avanzamento della gravidanza stessa. Se viene assunto prima dell’ovulazione, il farmaco la ritarda e quindi ha un effetto anticoncezionale. Ma se viene assunto dopo che l’ovulazione è avvenuta, non impedisce la fecondazione bensì che l’embrione eventualmente formatosi riesca ad attecchire nell’utero.

E la Ru486?

Il mifepristone agisce in modo molto simile, ma essendo somministrato a scopo abortivo a dosi molto maggiori (da 200 a 600mg rispetto ai 10-30 dell’ulipristal acetato) ha il potere di bloccare lo sviluppo dell’embrione anche se si è già impiantato in utero. Del resto in alcuni Paesi asiatici (come India, Cina, Indonesia) il mifepristone viene usato a basse dosi (10mg) per ottenere lo stesso effetto di pillola dei cinque giorni dopo. E in questa forma – come “contraccettivo d’emergenza” – è stato riconosciuto e propagandato dalla stessa Organizzazione mondiale della sanità (Oms). A conferma che l’azione dei due farmaci è molto simile.

Invece il levonorgestrel, cioè la pillola del giorno dopo?

Anche questo farmaco è un modulatore del recettore del progesterone, ma anziché un antagonista è un prodotto ad azione progestinica. Si tratta cioè di un ormone, somministrato ad alte dosi, che provoca l’inibizione dell’ovulazione – se non è ancora avvenuta – attraverso un’azione sull’asse ipotalamo-ipofisi-gonadi. Dopo l’ovulazione, la sua azione di ostacolo al proseguimento di una gravidanza è affidata a tre meccanismi: da un lato rende più difficile il passaggio degli spermatozoi attraverso le vie genitali femminili, favorendo il formarsi di un tappo mucoso nell’utero; da un altro causa un rallentamento della velocità di trasferimento dell’embrione attraverso le tube verso l’utero, che solitamente dura 24-48 ore (e in questo modo può favorire l’instaurarsi di una gravidanza extrauterina); infine, l’alta dose di progestinico somministrato, interferendo sulla fisiologia dell’endometrio, può rendere difficile l’annidamento. Tuttavia, quando l’annidamento dell’embrione è avvenuto, l’azione del levonorgestrel non induce effetti abortivi, a differenza degli antiprogestinici Ru486 e ulipristal.

In sostanza perché si parla di contraccezione di emergenza e non di aborto?

È un problema lessicale e di convenzione. Le polemiche sono appunto legate alle definizioni di aborto e di contraccezione. Quest’ultima dovrebbe essere considerata solo ciò che impedisce il concepimento, ma se è un sistema che agisce dopo l’unione dei due gameti (spermatozoo e ovulo), quindi dopo la creazione di un nuovo individuo, è chiaro che interviene allo stadio iniziale della vita da un punto di vista biologico e scientifico. E quindi con ricadute etiche ben diverse. Viceversa se – come fanno alcuni ginecologi – si definisce gravidanza il periodo che va dall’annidamento dell’embrione al parto, si usa una convenzione che, in modo capzioso, permette di non definire abortivo ciò che impedisce l’impianto in utero.

Da “Avvenire” on line del 20 agosto 2010. Enrico Negrotti

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