Operazione "White Christmas": a Natale, fuori il nero!
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Pubblichiamo integralemte l’articolo apparso sul sito dell’Agenzia SIR, oggi (24 novembre 2009) che illustra il provvedimento adottato dal Comune di Coccaglio (Brescia), per espellere gli immigrati irregolari entro la NOTTE DI NATALE.
Ha fatto discutere, per la forma, i tempi e la sostanza, la cosiddetta operazione “White Christmas”, azione di controllo sull’immigrazione clandestina del Comune di Coccaglio (Brescia), che prevede che tutti gli immigrati privi del permesso di soggiorno, o con il permesso di soggiorno in scadenza, siano espulsi entro la notte di Natale. Partendo da questo provvedimento, ma ampliando l’orizzonte a considerazioni più generali, il SIR ha chiesto a Davide Rondoni, scrittore, poeta e opinionista, una riflessione sulla responsabilità nell’uso del linguaggio da parte di chi occupa ruoli pubblici e ricopre cariche politiche. Una riflessione insomma sul “rischio” della parola e sul rapporto tra parola e alterità, andando oltre “White Christmas”.
Che cos’è oggi la parola e che cos’è l’alterità? “Le due cose non esisterebbero l’una senza l’altra. La parola è uno degli strumenti primari di cui dispone l’uomo per mettersi in rapporto con tutto ciò che è altro da lui, non solo l’altro uomo ma quanto lo circonda. La parola che non accetta questo rapporto con l’alterità diviene quindi non solo monologo, ma parola a vanvera. È connaturato alla parola stessa il fatto di tenere dentro il proprio orizzonte la presenza dell’altro. L’alterità, in questo senso, è il modo con cui la vita mi parla, e una modalità con cui la vita mi parla è ciò che l’altro suscita in me”. Da cosa nascono le parole che respingono e da dove nascono le parole che accolgono l’alterità? “Una parola che è fedele a se stessa e al proprio scopo non può che essere una parola che accoglie l’altro, o meglio cerca di conoscerlo. L’accoglienza è una parte della conoscenza, non è fine a se stessa, e chiede una parola tesa a comprendere e a usare il giudizio”. Che cosa vuole dire? “Che nel momento in cui accoglie può essere anche una parola dura, non è detto che l’accoglienza sia sempre dolce; la conoscenza di un fenomeno può riservare, oltre a sorprese, anche alcune durezze. Se fossimo già in Paradiso tutte le parole sarebbero solo di saluto e benvenuto, ma dato che non è ancora così, fare finta che lo sia o stupirsi che non lo sia è, da almeno quattrocento anni, un grave errore della cultura moderna. All’interno del limite che caratterizza la nostra condizione, la parola che usiamo è tesa a conoscere, e nel farlo, l’incontro può certamente produrre durezze e rugosità. Del resto questo lo sperimentiamo già nelle relazioni più strette, ad esempio con i nostri figli. A volte una parola dura fa parte dell’accoglienza più autentica”. C’é una differenza di responsabilità nell’uso delle parole in pubblico e in privato? “No. Una persona è sempre responsabile delle parole che usa, sia di fronte ad un unico interlocutore, sia in televisione. La differenza la fa il contesto: non è detto che tutto ciò che si dice in privato lo si dica in pubblico e viceversa. Si è sempre e ugualmente responsabili rispetto al contesto in cui ci si trova. Non esiste una responsabilità/irresponsabilità privata o una responsabilità/irresponsabilità pubblica: la responsabilità è nei confronti del vero, verso ciò che la parola vuole conoscere e affermare veramente. La responsabilità non è una categoria politica, ma una categoria morale”. Come reagire culturalmente all’uso distorto o strumentale delle parole? “Le parole sono un effetto dell’atteggiamento verso la vita. Non esistono parole a se stanti: esse nascono sempre da una vita, da un corpo, da un modo di essere. Il problema allora non consiste tanto nelle parole, quanto nell’esperienza che si vive, esperienza appunto di responsabilità e di tensione alla conoscenza. È da questo che nascono parole vivaci ma non idiote; parole larghe, e non che chiudono! La reazione non può pertanto essere di natura culturale in senso strettamente linguistico – non basta essere puliti nel linguaggio – ciò che occorre è essere veri. Ed è a questo che bisogna educare le nuove generazioni. Al momento giusto e per finalità adeguate si possono utilizzare tutte le tonalità del nostro linguaggio, anche le più dure, violente e colorite, ma l’uso della lingua deve essere sempre rispettoso dell’oggetto cui si applica. Altrimenti, come spesso accade nel dibattito pubblico, oltre a rivelare un deficit culturale e di capacità di pensiero linguistico del soggetto, un uso inappropriato del linguaggio rischia di svilire le questioni e abbassare il tono del dibattito”. A conclusione la domanda è d’obbligo: che reazione ha avuto quando ha sentito parlare di “White Christmas”? “Mi sembrano bischerate nelle quali avverto un vago sapore di Ku Klux Klan; tuttavia occorre chiedersi perché nascano. Alla loro radice c’è un disordine che si fa fatica ad affrontare e a gestire, ma che questo tipo di risposta rischia di accrescere. La questione è troppo seria per essere trattata in termini di sgangherata comunicazione politica”.