"Il manuale del predicatore" di don Mario Masina

"IL MANUALE DEL PREDICATORE"
(Tutto quello che un prete dovrebbe sapere per non annoiare i suoi fedeli)

Da lunedì 8 giugno vi proporremo, quotidianamente, parte del "manuale", scritto da don Mario Masina, vicario episcopale della diocesi di Verona. I destinatari sono i sacerdoti nello specifico, ma anche i laici possono trovare margini di miglioramento nella "comunicazione" con l’altro.  Per presentare l’opera partiamo  dall’introduzione che lo stesso monsignor Masina ha scritto,
attendiamo i vostri commenti.
Domenica.
In ogni chiesa, grande o piccola, bella o brutta, di città o di campagna, terminata la proclamazione del vangelo, la gente si siede e il prete comincia a parlare. È il momento dell’omelia o della predica, per dirla nel linguaggio corrente. Nessuno si meraviglia, nessuno protesta, nessuno si ribella. È scontato che c’è. Dopotutto è duemila anni che funziona così.
A questo punto della Messa i cristiani si aspettano alcune cose. In primo luogo di non addormentarsi perché sottoposti a un lungo, confuso e noioso monologo; in secondo luogo di non doversi sorbire l’ennesimo sfogo emotivo di uno che sembra ce l’abbia col mondo intero; infine, di portarsi a casa qualcosa che arricchisca spiritualmente la propria vita cristiana. E vi pare poco?
Questa è la cosa dal punto di vista dai fedeli. Dal punto di vista del prete che prende la parola, possono insorgere alcune strane sensazioni. Qualcuno rimane convinto che basti aver frequentato i corsi di esegesi dell’antico e del nuovo testamento, con votazione di esame almeno superiore al venti, per commentare bene le letture domenicali. Qualche altro con meno dimestichezza di ermeneutica e dogmatica, fa affidamento all’imposizione delle mani del giorno della propria ordinazione che, ex opere operato, ha fatto di lui un buon predicatore. Altri, arrivati di corsa all’ultimo momento, si affidano allo Spirito, non avendo avuto il tempo di leggersi in anticipo nemmeno il vangelo. Altri vengono presi dal panico, perché parlare davanti all’assemblea non è mai facile. Alcuni affrontano serenamente il compito perché preparato con cura da tempo. Prendere la parola davanti a un’assemblea è un’arte. Certo, come ogni arte può essere che un prete sia più portato del suo confratello, più dotato per le qualità innate che si trova ad avere: artisti si nasce. È però altrettanto vero che artisti si diventa. Questo per dire che accanto ad innegabili predisposizioni congenite, come ogni arte, anche il prendere la parola in pubblico domanda un tirocinio di applicazione, di graduale acquisizione delle regole fondamentali, di paziente e umile riconoscimento di aver qualcosa da imparare. Ce lo domanda il rispetto per la Parola di Dio che dobbiamo annunciare, il rispetto per le persone che abbiamo davanti, il rispetto di noi stessi preti e del nostro servizio pastorale alla comunità. Ce lo domanda il tempo affascinante che stiamo vivendo, stagione culturale in cui la comunicazione gioca un ruolo fondamentale. In questo villaggio globale zeppo di parole, non è agevole farsi largo nell’intasamento multimediale. Sarebbe ingenuo pensare che la gente ti ascolta solo per il fatto che è fisicamente seduta in un banco. solo per il fatto che a parlare è un prete, solo per il fatto che l’oggetto è la Parola. Ormai abbiamo tutti un telecomando incorporato dentro la testa: se il tizio che parla non ci cattura entro i primi due minuti, abbiamo già cambiato canale. E allora addio predica! E questo non per inseguire le mode, non per il gusto delle stravaganze e nemmeno per trasformare l’omelia in uno show, con al centro la propria star. Niente di tutto ciò.
È solo per imparare a comunicare, a comunicare il meglio possibile. Convinti che se gli altri curano fino all’ossessione i particolari di un discorso di tre minuti fatto alla TV – e spesso per dire solo scemenze – cosa non dovremmo fare noi che annunciamo nientemeno che Gesù Cristo? Cominciamo allora ad esaminare l’oggetto in questione, la predica. Gli elementi che entrano in gioco in questa presa di parola sono molteplici. Anzitutto vi sono quelli di carattere contenutistico, ad esempio, una buona base biblica, un’attenzione alla vita reale e vissuta della gente. Ma non tratterò di questi. Vi sono poi elementi di carattere spirituale: infatti, si intuisce subito se un prete crede a quello che dice o lo dice solo perché è un prete. Si avverte subito se è implicato nella riflessione, come discepolo tra discepoli, se la Parola la sente rivolta prima di tutto a sé o parla sempre e solo per gli altri. Ma non tratterò nemmeno di questi.
Vi sono elementi di carattere personale. Ogni prete si pone di fronte alla propria gente in modo tutto originale, con il proprio carattere, la propria timidezza o sicurezza, umiltà od ostentazione. Molti disturbi della comunicazione nascono molto prima che la gente entri in chiesa. Se sono aggressivo e scorbutico nei rapporti quotidiani, se sono dispotico e poco aperto al dialogo, tutto questo giocherà un ruolo negativo nell’accoglienza dell’annuncio della Parola. Ma non tratterò nemmeno di questo. Cosa allora prenderò in considerazione nelle pagine che hai cominciato a leggere? Tratterò solo degli elementi comunicativi, di quelle attenzioni, cioè, indispensabili nel prendere la parola davanti a qualcuno che ascolta. Mentre, infatti, gli anni di seminario ci hanno fornito gli elementi
contenutistici, mentre la formazione permanente, ritiri ed esercizi spirituali tengono viva la dimensione interiore e la spiritualità del predicatore, mentre il confronto quotidiano con le persone e le esperienze fatte maturano, si spera, la dimensione personale e umana dell’essere prete, molto rare o addirittura assenti sono le occasioni in cui impariamo a comunicare e a comunicare bene.
Ed è proprio questa lacuna che vorrei aiutarti a colmare. 

 

 

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