L'Innominato ha un nome: Alessandro Manzoni…
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«L’Innominato sono io». Parola di Alessandro Manzoni. La rivelazione, inedita, è stata lanciata dall’italianista Ezio Raimondi nel corso delle Giornate dell’Osservanza organizzate a Bologna per ricordare il centenario della conversione dell’autore dei Promessi sposi avvenuta nel 1810. Un’occasione per affrontare il tema della metanoia e della conversione sia sotto il profilo filosofico (Massimo Cacciari) e linguistico (il rettore dell’Università Ivano Dionigi).
Raimondi ha ricordato che Manzoni non amava parlare della sua caduta da cavallo avvenuta il 2 aprile 1810, quando in mezzo alla folla la moglie svenne e lui si ritrovò in una chiesa dove fu investito da una nuova epifania. «Non c’è da meravigliarsi – ha affermato l’italianista – di questo suo pudore. Qui pesa l’umiltà dello scrittore: preferiva i temi romantici, dire “noi” piuttosto che “io”, non aveva neanche come il cardinale Newman il riferimento malizioso agli scrittori. Eppure introduce nel romanzo ben due conversioni: quelle di fra Cristoforo e dell’Innominato».
Un elemento singolare nello scrittore, ha sostenuto Raimondi, che «ha portato la sua interiorità quasi a trasfigurarsi nei due personaggi. Ma non solo: due personaggi coinvolti in conversioni entrambe dal dirompente effetto pubblico». Che questa sia trasfigurazione sia il modo prescelto per conciliare le sue affabulazioni e la sua situazione personale lo confermano certe pagine dei Promessi sposi.
«Per esempio – ha raccontato Raimondi – introduce la notte dell’Innominato che non era presente nella precedente edizione di Fermo e Lucia. Forse la pagina più shakespeariana di tutta la sua opera. Qui sono rilanciate sensazioni forti che Manzoni non può non aver mutuato dai suoi ricordi». Di più: «Quello che il cardinale afferma diventa quasi un archetipo. Ecco allora la svolta. I suoi personaggi religiosi non sono convenzionali. Perché fanno proprie le cose che dicono. Il suo è un romanzo in cui i laici sono vicini ai religiosi, anche se rimane un romanzo laico che usa temi religiosi». Un percorso che avrà delle ricadute incredibili nella poesia dopo la conversione, nella Pentecoste ma soprattutto nel clamoroso finale religioso del 5 maggio.
Ha proseguito Raimondi: «Manzoni si rendeva conto che voleva scrivere un libro cattolico anche per i non cattolici. Tutto affonda le radici nella sua esperienza ma proprio per questo non vuole fare trasparire i suoi nuovi sentimenti». Anche fra Cristoforo, in qualche modo rientra in questa prospettiva. «Di lui – secondo Raimondi – racconta la giovinezza, il fatto di essere diventato per rancore protettore degli oppressi, ma con un’angoscia irrisolta: per raggiungere questa finalità doveva far ricorso ai bravi».
E qui la corrispondenza biografica con lo scrittore diventa più evidente. «Per quella che sembrava fantasia e diventò risoluzione». In una lettera del settembre dello stesso anno ad un amico francese Manzoni confida: «Riprendo l’abitudine di parlare del mio lavoro, mi occupo dell’oggetto più importante seguendo le idee religiose che Dio mi ha dato a Parigi; quanto più avanzo il mio cuore è contento e lo spirito è soddisfatto».
E diventa con l’amico quasi capace di una proposta cristiana. «Posso esprimere la speranza che anche voi vi occupiate di questi temi?». Confermandosi così un singolare illuminista che sente il disagio dell’immanenza. In un altra lettera Manzoni è ancora più esplicito. Scrive a un sacerdote: «Pregate per me che piaccia al Signore di scuotere la mia lentezza nel suo servizio e togliermi da un tepidezza che mi tormenta, un castigo per chi non solo dimenticò ma ebbe l’ardire di negarlo». La conclusione di Raimondi è che «la conversione di Manzoni non è il passaggio da una religione ad un’altra ma la riscoperta della sua religione d’origine. Ricupera qualcosa del passato e lo scopre con nuove ragioni. Alla trasformazione dell’uomo, con la sua esperienza religiosa, si aggiunge una nuova scrittura. La sua resta una rivoluzione interiore dove il vecchio scrittore è osservato dal nuovo. Il risultato è un abbandono della classicità per abbracciare il sistema biblico evangelico, come la stesura degli Inni sacri clamorosamente conferma».
Dal quotidiano “Avvenire” del 26 maggio 2010 a firma di Stefano Andrini