Donne afghane, quando la morte è la sola fuga
|Una media di 2.300 donne che si suicidano ogni anno in Afghanistan per ragioni legate alla violenza quotidiana e familiare. Lo ha reso noto a Kabul Faizullah Kakar, consigliere per le questioni della Salute del presidente Hamid Karzai.
Kakar ha sottolineato che il segmento preso in considerazione riguarda donne fra i 15 e i 40 anni che decidono di togliersi la vita come «risorsa estrema di fronte a violenze subite». La percentuale più consistente, ha assicurato, riguarda coloro che si tolgono la vita autoimmolandosi, appiccando cioè il fuoco al loro corpo. Fra le ragioni che spingono le donne afghane a uccidersi vi sono insicurezza, stupri, comportamento violento dei mariti e matrimoni forzati. A distanza di nove anni dalla caduta dei taleban, la condizione della donna afghana rimane una strada tutta in salita, nonostante venga spesso confinata dai media occidentali alla sola «questione burqa». La condizione di donne e bambini, bisogna dire, visto che cinque bambini afghani sono morti ieri quando un attentatore suicida si è fatto esplodere a bordo di un’auto imbottita di esplosivo vicino al convoglio di un governatore della provincia di Kandahar, uscito illeso dall’attacco. Lo scorso novembre il Consiglio religioso della provincia occidentale di Herat ha diramato una fatwa (decreto religioso) in cui si ufficializza per loro il divieto assoluto di viaggiare senza la compagnia di un parente in quanto fare il contrario «solleva interrogativi sulla loro moralità». Da febbraio si sono poi ripetuti gli avvelenamenti, in alcuni casi con agenti chimici e gas, nelle scuole femminili. Almeno sette istituti sono stati colpiti in varie parti del Paese. In un solo episodio a Kunduz, lo scorso aprile, un centinaio fra studentesse ed insegnanti sono finiti all’ospedale. Quando una bambina nasce, in Afghanistan, da subito le dicono: «povera ragazza». L’amara considerazione è di Fauzia Kofi, 32 anni, vice presidente del Parlamento afghano. «Subito ci fanno capire che non abbiamo scampo per il resto della vita, per noi ci sarà solo compassione». La misogenia non conosce bandiere. Sotto i taleban, l’universo femminile era recluso in casa. Ma anche prima, quando a Kabul comandavano i mujaheddin, la donna era poco più che un soprammobile. Ancora oggi, il tasso di alfabetizzazione è appena del 12,6% per le donne e, nelle aree tribali il 90% non sa leggere e scrivere. Spose a meno di 18 anni, un quarto delle donne muore mettendo al mondo il primo figlio. L’Afghanistan ha uno dei più alti tassi di mortalità legati alla maternità: 25 mila decessi l’anno. Eppure la Costituzione del “nuovo Afghanistan” parla all’articolo 22 di «pari diritti e doveri» per maschi e femmine e all’articolo 44 parla del diritto della donna all’istruzione, mentre l’articolo 53 garantisce il sostegno dello Stato alle donne senza custodi. In particolare, la legge elettorale prevede una quota rosa del 20% al Parlamento, senza parlare di un apposito ministero sulla condizione femminile. Numerose donne hanno, infine, scalato i gradini del potere, come Habiba Sarabi, governatore della provincia di Bamyan, diventata un simbolo per il suo impegno a favore delle donne. Numerose Ong occidentali lavorano oggi su progetti di solidarietà verso le donne afghane, come l’apertura di centri di accoglienza per donne fuggite da casa o vittime di violenza domestica. «Fino a quando le donne non avranno accesso al mondo economico, non ci sarà emancipazione, non ci sarà rispetto», afferma Fauzia Kofi. Un po’ come recita un adagio popolare afghano: «qatra qatra darya meshawad». Goccia a goccia si fa il fiume.
Camille Eid per “Avvenire” on line del 3 agosto 2010