Come prepararsi all’omelia: "la voce"
|Quinto appuntamento con "IL MANUALE DEL PREDICATORE" (Tutto quello che un prete dovrebbe sapere per non annoiare i suoi fedeli) scritto da don Mario Masina, oggi vi proponiamo: "L’omelia vista dall’esterno, la voce".
Oltre a curare l’interno dell’omelia non è secondario o irrilevante dare attenzione anche all’esterno. Sono quegli aspetti, cioè, concomitanti il prendere la parola, ai quali si fa meno caso. Ne vediamo alcuni.
1. LA VOCE
Non è soltanto un normalissimo apparato di trasmissione verbale. La voce è un vero e proprio biglietto da visita. Ha il formidabile potere di allontanare l’interesse da un discorso bello e profondo, quanto di invitare ad ascoltare le cose più superficiali. Cominciamo dal microfono. È la prima attenzione da avere. Noi preti siamo abituati a manovrare impianti di amplificazione. Prova ne sia che ogni buon parroco ritiene indispensabile cambiare tutti i microfoni della chiesa entro pochi mesi dal suo ingresso in parrocchia. Forse per prendere subito le dovute distanze dal predecessore. Col microfono si deve comunque familiarizzare.
Qualcuno ritiene che debba essere il microfono a seguire il predicatore. Per tale motivo non si preoccupa affatto di tenerlo due spanne più in basso della bocca o a mo’ di corona sopra la testa.
Lui continua a parlare. E la gente continua a non capire una parola. Altri praticamente lo ingoiano, facendo rimbombare la chiesa di rumori indecifrabili. I fedeli avvertono ad intervalli regolari solo le «p»: perché sembrano autentiche bordate di cannone. Qualche altro, nonostante predichi da dieci anni nella stessa chiesa, non ha ancora capito bene come funziona. Una domenica fa fischiare l’impianto in maniera insopportabile. La domenica successiva, memore del disastro precedente, si limita a un brusio impercettibile. E la gente continua a non capire una parola. La terza domenica, esasperato dalla tirannia della tecnica, il medesimo predicatore decide di non usarlo per niente. Si mette davanti agli scalini dell’altare e parla. E la gente degli ultimi banchi continua a non capire una parola.
Il bravo predicatore, a scadenza periodica, domanda ora all’uno ora all’altro se la voce arriva chiara e nitida. Sguinzaglia qualche suo collaboratore ai quattro angoli della chiesa per verificare che in ogni punto la resa sia buona. E si ricorda che la maggior parte delle volte i problemi non nascono dall’impianto, ma dalla propria incapacità a usare bene il microfono. Fatto questo primo passo, valutiamo bene il volume, il timbro, il registro (acuto o grave) e la cadenza che vogliamo dare alla nostra voce. È ben vero che ognuno si deve tenere la voce che ha. È altrettanto vero che con un poca di attenzione si può ovviare a parecchi inconvenienti. La persona che deve parlare in pubblico – pensa a un attore, a uno speaker, a un presentatore – dedica una cura tutta particolare alla voce. Qualcosa del genere dovrebbe essere per noi. Una predica appena bisbigliata, costringe gli ascoltatori a un surplus di attenzione: sia ai contenuti che al modo di parlare. Una predica dal tono alto e accentuato non permette di capire quali sono i passaggi importanti, perché sembra che tutto sia importante. Un predicatore dal tono sempre dimesso, da l’impressione di non essere convinto nemmeno lui di quello che dice. Capita talvolta di ascoltare preti che giocano all’effetto: gridano e sbraitano alcune frasi e, un secondo dopo, continuano con un tono bassissimo. Il metodo forse poteva funzionare qualche secolo fa. Oggi la gente si domanda se sei normale o semplicemente che idea ti sei fatto della messa.
Un discorso a parte meritano le pause. Ricordo che negli anni di seminario ci divertivamo a contare i secondi che un predicatore lasciava passare prima di pronunciare la parola successiva.
Un vero tormento. Se utilizzate in modo intelligente, invece, le pause conferiscono al discorso un tocco in più. L’importante è sapere dove e come farle. Le pause sono il sale del discorso: ne basta un pizzico per dargli un po’ di sapore. È opportuno che, già nel predisporre l’omelia, io mi segni i momenti in cui fermarmi un attimo: non messi a caso, ma studiati in rapporto all’accentuazione che intendo dare ad alcuni passaggi. Una prima pausa da valorizzare sarà quella immediatamente successiva il «lode a te o Cristo» a conclusione della lettura del vangelo.
Non avere fretta di attaccare. Aspetta che la gente si sieda, si accomodi, si predisponga all’ascolto. Conta almeno fino a sette e poi attacca.
Anche il respiro va osservato. Hai presente alcuni venditori televisivi che sembrano veri e propri compressori? Forse il loro successo è dato anche da questa originalità. Per noi il discorso però è diverso. Sarebbe solo un elemento di disturbo sentire il prete ansimare goffamente al microfono.
A meno che non abbia l’asma.
Infine un accenno alla velocità di pronuncia. Qualche prete è convinto che parlando in fretta si riescano a dire più cose in meno tempo. Può essere. Qualche altro è del parere che parlando lento come una lumaca le idee entrino meglio nella zucca. Può essere. Qualche altro non pronuncia nemmeno tutta la parola: la smozzica a metà, mangiandosi frasi intere. Peggio ancora. L’importante è trovare un modo che consenta a tutti di seguirti agevolmente, senza doverti rincorrere come una lepre o invocare l’intervento del carro attrezzi per trainarti in avanti. Per avere un’idea, si legge in giro che per farsi comprendere correttamente dovremmo pronunciare non meno di 110 e non più di 150 parole al minuto. Qualche volta potresti toglierti lo sfizio di contarle.
Non è soltanto un normalissimo apparato di trasmissione verbale. La voce è un vero e proprio biglietto da visita. Ha il formidabile potere di allontanare l’interesse da un discorso bello e profondo, quanto di invitare ad ascoltare le cose più superficiali. Cominciamo dal microfono. È la prima attenzione da avere. Noi preti siamo abituati a manovrare impianti di amplificazione. Prova ne sia che ogni buon parroco ritiene indispensabile cambiare tutti i microfoni della chiesa entro pochi mesi dal suo ingresso in parrocchia. Forse per prendere subito le dovute distanze dal predecessore. Col microfono si deve comunque familiarizzare.
Qualcuno ritiene che debba essere il microfono a seguire il predicatore. Per tale motivo non si preoccupa affatto di tenerlo due spanne più in basso della bocca o a mo’ di corona sopra la testa.
Lui continua a parlare. E la gente continua a non capire una parola. Altri praticamente lo ingoiano, facendo rimbombare la chiesa di rumori indecifrabili. I fedeli avvertono ad intervalli regolari solo le «p»: perché sembrano autentiche bordate di cannone. Qualche altro, nonostante predichi da dieci anni nella stessa chiesa, non ha ancora capito bene come funziona. Una domenica fa fischiare l’impianto in maniera insopportabile. La domenica successiva, memore del disastro precedente, si limita a un brusio impercettibile. E la gente continua a non capire una parola. La terza domenica, esasperato dalla tirannia della tecnica, il medesimo predicatore decide di non usarlo per niente. Si mette davanti agli scalini dell’altare e parla. E la gente degli ultimi banchi continua a non capire una parola.
Il bravo predicatore, a scadenza periodica, domanda ora all’uno ora all’altro se la voce arriva chiara e nitida. Sguinzaglia qualche suo collaboratore ai quattro angoli della chiesa per verificare che in ogni punto la resa sia buona. E si ricorda che la maggior parte delle volte i problemi non nascono dall’impianto, ma dalla propria incapacità a usare bene il microfono. Fatto questo primo passo, valutiamo bene il volume, il timbro, il registro (acuto o grave) e la cadenza che vogliamo dare alla nostra voce. È ben vero che ognuno si deve tenere la voce che ha. È altrettanto vero che con un poca di attenzione si può ovviare a parecchi inconvenienti. La persona che deve parlare in pubblico – pensa a un attore, a uno speaker, a un presentatore – dedica una cura tutta particolare alla voce. Qualcosa del genere dovrebbe essere per noi. Una predica appena bisbigliata, costringe gli ascoltatori a un surplus di attenzione: sia ai contenuti che al modo di parlare. Una predica dal tono alto e accentuato non permette di capire quali sono i passaggi importanti, perché sembra che tutto sia importante. Un predicatore dal tono sempre dimesso, da l’impressione di non essere convinto nemmeno lui di quello che dice. Capita talvolta di ascoltare preti che giocano all’effetto: gridano e sbraitano alcune frasi e, un secondo dopo, continuano con un tono bassissimo. Il metodo forse poteva funzionare qualche secolo fa. Oggi la gente si domanda se sei normale o semplicemente che idea ti sei fatto della messa.
Un discorso a parte meritano le pause. Ricordo che negli anni di seminario ci divertivamo a contare i secondi che un predicatore lasciava passare prima di pronunciare la parola successiva.
Un vero tormento. Se utilizzate in modo intelligente, invece, le pause conferiscono al discorso un tocco in più. L’importante è sapere dove e come farle. Le pause sono il sale del discorso: ne basta un pizzico per dargli un po’ di sapore. È opportuno che, già nel predisporre l’omelia, io mi segni i momenti in cui fermarmi un attimo: non messi a caso, ma studiati in rapporto all’accentuazione che intendo dare ad alcuni passaggi. Una prima pausa da valorizzare sarà quella immediatamente successiva il «lode a te o Cristo» a conclusione della lettura del vangelo.
Non avere fretta di attaccare. Aspetta che la gente si sieda, si accomodi, si predisponga all’ascolto. Conta almeno fino a sette e poi attacca.
Anche il respiro va osservato. Hai presente alcuni venditori televisivi che sembrano veri e propri compressori? Forse il loro successo è dato anche da questa originalità. Per noi il discorso però è diverso. Sarebbe solo un elemento di disturbo sentire il prete ansimare goffamente al microfono.
A meno che non abbia l’asma.
Infine un accenno alla velocità di pronuncia. Qualche prete è convinto che parlando in fretta si riescano a dire più cose in meno tempo. Può essere. Qualche altro è del parere che parlando lento come una lumaca le idee entrino meglio nella zucca. Può essere. Qualche altro non pronuncia nemmeno tutta la parola: la smozzica a metà, mangiandosi frasi intere. Peggio ancora. L’importante è trovare un modo che consenta a tutti di seguirti agevolmente, senza doverti rincorrere come una lepre o invocare l’intervento del carro attrezzi per trainarti in avanti. Per avere un’idea, si legge in giro che per farsi comprendere correttamente dovremmo pronunciare non meno di 110 e non più di 150 parole al minuto. Qualche volta potresti toglierti lo sfizio di contarle.