Come prepararsi all’omelia: “il luogo e il modo”

Settimo appuntamento con "IL MANUALE DEL PREDICATORE" (Tutto quello che un prete dovrebbe sapere per non annoiare i suoi fedeli) scritto da don Mario Masina, oggi vi proponiamo: "L’omelia vista dall’esterno, il luogo da cui si parla e il modo di presentarsi.


3. IL LUOGO DA CUI SI PARLA
Partiamo dall’ambone, luogo proprio dell’annuncio. Se vuoi farti ascoltare bene, bisogna che la gente ti veda in modo chiaro e distinto, senza dimenticare che prima che il tuo, quello è il luogo della Parola. Capita talvolta di predicare immersi in piante e cespugli di ogni genere, con fronde dalle quali è già un’impresa far capolino. O da un leggio che a malapena ti lascia fuori gli occhi per guardare la gente, tipo quelli enormi che si vedono in certi cori abaziali di chiese romaniche. L’ambone, la sua struttura e collocazione sono fondamentali per una corretta comunicazione e per stabilire un rapporto con l’assemblea. Non può e non deve restare in ombra, in posizione defilata o schiacciato in un angolo.
Talvolta può essere opportuno tenere l’omelia dalla sede, se ciò ti permette ugualmente di guardare in faccia la gente. In questo caso devi curare bene la posizione del corpo e delle mani, specie in mancanza di un leggio. Parlare dalla sede domanda almeno che ci siano alcuni altri accanto a te, concelebranti, diacono, accolito, ministranti; questo per non dare l’idea della classica voce che grida nel deserto. Diversamente è preferibile l’ambone.
Con i radiomicrofoni diventa ora più facile spostarsi anche altrove: qualcuno scende in mezzo allagente o davanti all’altare. È una scelta che va studiata e valutata con attenzione. Può suggerire familiaritàma anche perdere in autorevolezza. Dipende dal tipo di assemblea, dai contenuti che vuoi veicolare, dal messaggio che lasci passare. Raggiunge alcuni obiettivi, ma ne fallisce sicuramentealtri. L’importante è esserne consapevoli e non abusarne.


4. IL MODO DI PRESENTARSI

Chi parla in pubblico deve sempre fare attenzione al proprio modo di proporsi. Il vestito, per esempio, è un messaggio della persona. Il prete non ha questi problemi e la domenica mattina non ha da domandarsi: «Meglio casual o elegante?». Tantomeno deve preoccuparsi che camicia, cravatta e giacca si accordino bene. Quando uno celebra, sa cosa mettersi addosso. Però, diciamo la verità, certe vesti sono decorose? Camici che arrivano al polpaccio o spolverano abbondantemente il presbiterio; casule che sembrano sacchi, spesso con un collo sporco e lurido, amitti che vengono fuori
da tutte le parti, pezzi di stola penzolanti da un fianco. Visto da lontano, più che il presidente di un’azione liturgica, qualche prete sembra lo spaventapasseri dell’orto del vicino. Un modo di vestirsi trasandato e disordinato offende la liturgia e le persone che ci guardano e ci ascoltano. Anche la cura del vestire liturgico dice la considerazione che abbiamo della messa. Spesso spendiamo cifre da capogiro per i muri, ma per la liturgia continuiamo a indossare cose indecenti e vecchie di trent’anni. Intendiamoci, non le belle e preziose pianete del settecento riportate a nuovo o gli splendidi broccati d’altri tempi; ma certa robaccia brutta econsunta, vere e proprie oscenità estetiche.
Dalla cura del vestire passiamo alla cura della propria persona: capelli spettinati, barba incolta, scarpe sporche e logore: e di solito non per spirito di povertà, ma solo per colpevole trascuratezza. Non si tratta di trasformare la liturgia in una sfilata di moda, chiaro, ma nemmeno di farsi compatire dalla gente. Sono tutti piccoli ma importanti accorgimenti che predispongono all’attenzione e rendono gradevole la persona. Anche in chiesa l’occhio vuole la sua parte.

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