Come prepararsi all'omelia: l'atterraggio e il tragitto
|Quarto appuntamento con "IL MANUALE DEL PREDICATORE" (Tutto quello che un prete dovrebbe sapere per non annoiare i suoi fedeli) scritto da don Mario Masina, oggi vi proponiamo: "L’omelia vista da dentro, l’atterraggio e il tragitto".
II. L’ATTERRAGGIONon ti è mai capitato di arrivare, dopo alcune ore di volo, all’aeroporto di destinazione e, anziché atterrare, cominciare a girarci attorno per mezz’ora o un’ora? «Problemi di traffico aereo congestionato», comunica il comandante. Non vedi il momento di mettere i piedi per terra, e invece continui a fare il girotondo. Esperienza da dimenticare.
È la stessa sensazione che provano i tuoi fedeli quando, esaurito l’argomento da sviluppare, avvertono che la conclusione è vicina ma continuamente dilazionata. Che tormento. «Ecco, questa è l’ultima frase. No che riprende. Ma allora atterri sì o no?».
Leggevo da qualche parte che per prendere la parola in pubblico servono tre cose essenziali: 1. avere qualcosa da dire; 2. Dirla; 3. chiudere. «Il resto viene dal maligno», verrebbe da aggiungere parafrasando il vangelo.
Sulla prima non oso pronunciarmi – anche se è vero che talvolta ti sorge il sospetto che chi sta parlando abbia veramente qualcosa da dire e non parli tanto per parlare! – sulla seconda dirò di più preciso, sulla terza mi fermo adesso.
Sull’arte di chiudere un discorso o sulla lucidità di capire quando è ora di piantarla lì di parlare. La sostanza non cambia molto. Noi preti dobbiamo metterci in testa che è molto più difficile concludere un discorso, e concluderlo bene, che cominciarlo. Motivo? Voglia di essere esaurienti, voler dire tutto e sempre, presumere che le cose più le ripeti più entrano nella testa (pessimo convincimento).
Inutile nascondere che capita invece che ci lasciamo prendere la mano, perdiamo il filo, apriamo parentesi su parentesi galoppando la teoria che «un pensiero tira l’altro» e andiamo talmente in profondità che non riusciamo più a venirne a galla. Vi sono domeniche in cui dovremmo dare un premio ai nostri fedeli all’uscita della chiesa. Se non altro per la pazienza e rassegnazione che hanno mostrato nei confronti della nostra omelia. Risulta allora chiaro che, al momento di iniziare la predica, io devo già sapere in anticipo quando e soprattutto come concludere. Spesso è proprio il non sapere come, che porta a dilazionare il quando.
Le modalità di conclusione possono essere moltissime e diversissime. Dalla citazione di un breve testo (Madre Teresa, Tonino Bello, qualche altro autore…), alla domanda che lascia agli ascoltatori la responsabilità di cercare una risposta, al racconto che sigilla e precisa il tema (attento comunque a usare un solo racconto nell’omelia: due potrebbero appesantire), alla frase formulata in modo chiaro e stringato (www.frasicelebri.it). Può anche essere utile lasciare in sospeso un periodo o troncare al momento giusto un ragionamento. Una proposta di esercizio. Studia ed esperimenta modalità diverse di concludere la tua omelia, curandone il rapporto con l’introduzione. Se l’avvio è ampio, la conclusione sia leggera. Se l’avvio è stato leggero, puoi ampliare un po’ la conclusione. Est modus in rebus.
Avendo dedicato il tempo necessario alla preparazione, avendo individuato il messaggio che vuoi far passare, non resta altro che stendere la fatidica «scaletta». Il fatto che la gente veda che hai sott’occhio e manovri un foglietto non diminuisce la loro stima nei tuoi confronti; gli fa piuttosto tirare un sospiro di sollievo: «Meno male. Vuol dire che si è preparato!». Anche se, a dire la verità, non mancano casi di preti che con un semplice foglietto girato e rigirato, in latitudine e longitudine, non la finiscono più di parlare. Per carità. A quel punto meglio scriverla tutta la predica, e sapere quando atterrare. La scaletta. Può essere del tipo «a carciofo»: cominci cioè dagli aspetti esterni, complementari e ti avvii velocemente al cuore, al punto centrale che intendi toccare. Oppure vi è una scaletta «a piramide»: parti subito dall’elemento più importante (la cima della piramide) e poi via via apri le basi sottostanti, indicando le successive aperture. Nell’uno o nell’altro caso, l’importante è rendersi conto di quale operazione si va facendo, dal momento che se non l’ho ben presente io, chi mi ascolta capirà ancora meno. Gli ingredienti. Parlare in pubblico è un po’ come mettersi a cucinare. Non solo nel senso che non tutte le ciambelle riescono col buco (verissimo!), quanto piuttosto nel senso che non posso somministrare ogni domenica la stessa minestra. I fedeli mi andrebbero in assuefazione o, peggio ancora, inizierebbero a presentare preoccupanti sintomi di rigetto. Che fare? Semplice. Variare la ricetta. Anche per il fatto che alcuni sono più sensibili a determinati elementi, altri ad altri.
a) Per quel che concerne i contenuti. Fermo restando il riferimento Parola-Eucarestia, una domenica possono essere contenuti esclusivamente biblici, quella successiva più interiorispirituali, quella successiva più di vita ecclesiale, quella dopo con maggior accentuazione etico- sociale, una volta più strettamente teologici, un’altra con maggior riferimento al magistero, un’altra più legati alla dimensione sacramentale. Questo non significa piegare la Parola ai nostri obiettivi, ma approfittare delle occasioni che essa ci offre per toccare aspetti diversi e importanti della vita cristiana. Con tre letture per cinquanta domeniche all’anno, abbiamo a disposizione almeno centocinquanta «agganci» che vanno nelle direzioni più diverse.
Valorizziamoli.
b) Il tipo di linguaggio. È probabile che molti di noi ricorrano a un linguaggio di tipo argomentativo, improntato a un taglio di carattere razionale: premesse, tesi di fondo, conclusioni. Sta bene, anche se rischia di rimanere un po’ freddo. Non va dimenticato che oggi le persone sono molto sensibili al linguaggio emotivo, forse più di un tempo. Ecco perché vale la pena far emergere, con cautela, attese, paure, speranze e delusioni. Quella parte di sentimenti così importante nella vita di ciascuno. Oltre a quello emotivo, c’è anche un linguaggio evocativo da valorizzare: si tratta di far intuire, segnalare con immagini e metafore. L’unico da evitare è il linguaggio valutativo. Intendiamoci bene. Non significa tacere la verità o la posizione
della chiesa su alcuni temi o scelte. Semplicemente astenersi da sparare giudizi sulle persone, specie quelle che sono in chiesa.
c) Il soggetto della frase. La lingua italiana, grazie a Dio, ci mette a disposizione almeno sei possibili soggetti della frase. In molte omelie pare che il prete conosca solo il «voi» dei poveri malcapitati che si sentono rimproverare per colpe che riguardano gli assenti. O che si parli solo alla terza persona, singolare o plurale, in modo assolutamente impersonale.
Perché non provare a usare qualche volta la prima persona? Dopotutto le fatiche che fa la gente non le faccio anch’io? Le incoerenze della gente non sono un poco anche le mie?
Scendere dal piedistallo che mi costruisco e mostrare il credente, il discepolo che sta dietro al prete che predica, con tutti i suoi dubbi e fatiche, contribuisce a ricordarmi che con loro sono cristiano. L’«io» della prima persona, studiato bene specie se la predica ha un taglio interiore- spirituale, lungi dall’essere ostentazione ha il vantaggio di avvicinarmi ai fedeli e può tranquillamente diventare ed essere percepito come l’«io» di ciascuno. Così pure il «noi» non andrebbe disdegnato. Consente il coinvolgimento, il sentirsi parte della stessa famiglia.
Anche il diretto «tu» può essere utilizzato: chiaro, non per identificare qualcuno, ma per guadagnare in immediatezza, specie in domande del tipo: «Ti sei mai chiesto…?» oppure «se un giorno ti capitasse di…». In sintesi, è decisivo sapere cosa si intende raggiungere e rendersi conto di quali delicati meccanismi si vanno ad attivare con l’io, tu, noi, voi, lui o loro.
Ma variare si può.
Che l’omelia sia breve è una conclusione derivata da molteplici fattori quali il limitato livello di attenzione ottenibile in un monologo o la consapevolezza che nei primi cinque minuti si costruisce, nei secondi cinque si stabilizza, nei successivi si distrugge quanto costruito faticosamente in precedenza. Soprattutto essa deve essere breve per il rispetto dell’equilibrio dell’intera celebrazione (che pena vedere preti fare una predica interminabile e poi sbrodolare in fretta tutto il resto!), rispetto di una celebrazione dentro la quale l’omelia non ha certo il ruolo centrale (ricordiamocelo sempre). E teniamo presente che la liturgia, se fatta bene, ha una valenza formativa ed educativa in se stessa: sicuramente maggiore delle parole che il prete può appiccicarle. Il clima che vi si respira dentro. «Si prendono più mosche con un cucchiaio di miele che con un barile di aceto», recita un vecchio proverbio. E non ha tutti i torti. Già il termine greco omileo ci avverte che la predica ha da essere un discorrere in modo familiare. Forse memore del fatto che le prime liturgie si svolgevano proprio tra le mura domestiche. Ecco perciò che ogni cristiano ha il diritto di sentirsi a proprio agio ascoltando un’omelia. La cordialità nel modo di parlare, il ricorrere il meno possibile ai paroloni, l’assumere un tono delicato e non inquisitorio, il non confondere l’ambone con il podio e la navata della chiesa con la piazza del comizio elettorale, sono condizioni che le conferiscono il senso della misura. Tra l’arringa dell’avvocato, la lezione del docente, un monologo di Beppe Grillo, le raccomandazioni della mamma, i messaggi del televenditore e la predica della Messa deve pur esserci qualche differenza. Anche se non è detto che non si possa imparare qualcosa dall’uno e dall’altro. Occorre poi una sana umiltà. Non solo per il fatto che, tra chi ascolta, ci può essere qualcuno più competente di te in alcuni ambiti. Non solo perché la gente è stufa di essere trattata da ignorante, bistrattata con toni infantili, con qualcuno che la fa sentire una massa di ostinati peccatori verso cui usare la più pesante repressione. Piuttosto per non dare l’idea che il Padreterno abbia già nominato l’erede al trono: te! Sarebbe francamente eccessivo.
Persino un pizzico di sottile umorismo e ironia talvolta non guasta per niente. Esistono studi sull’umorismo di Gesù e sul fenomeno del risus paschalis, praticato dai predicatori di secoli passati. Intendiamoci: l’obiettivo non è quello di far ridere la gente e trasformare il prete in fenomeno da baraccone. Tutt’altro. È solo per ricordarci che un santo triste è un triste santo, per dirla alla Filippo Neri. Un discorso comprensibile a tutti. Un noto esponente della filosofia del linguaggio iniziava così un suo libro: «Ciò che si può dire, si può dire chiaramente». E in effetti ho sempre dubitato di coloro che parlano in modo contorto e non sanno farsi capire. Spesso si è propensi a pensare che sia colpa degli argomenti difficili; può essere. Molte volte diventa un vezzo, un po’ snob, per mascherare un sostanziale deficit di comunicazione (Alt! Sto parlando difficile anch’io!). Quando la gente comincia a dire: «Che bella predica ha fatto oggi don Paolo. Non ho capito molto, ma comunque è proprio bravo a parlare», dovrebbero venirci i brividi. E domandarci se riusciamo a cogliere la differenza tra parlare e comunicare: perché non sempre le due cose si identificano. Con frasi il più brevi possibile. Ricordate il periodare ampio e articolato, modello lingua latina, che con subordinate finali, causali, relative e concessive risultava lungo mezza pagina? L’esatto contrario. Figli del giornale e della TV, messo da parte Manzoni e i letterati ampollosi, parliamo e scriviamo con frasi brevi. Una frase corta, scritta o orale, viene recepita con più facilità di una lunga. Ho letto da qualche parte che le frasi ben comprensibili vanno dalle dieci alle quindici parole. Lo sono meno quelle sulle venti parole. Quelle sulle venticinque presentano notevoli difficoltà. Le successive risultano praticamente incomprensibili. Adeguiamoci.
E alla fine della messa, domanda a qualcuno che sensazione ha avuto della tua omelia. Se ti dice cose non proprio piacevoli, ricorda comunque di non mandarlo al diavolo.